Il volo “dell’aquilone spaziale” 25 anni fa
Era il 22 febbraio del 1996 e alla TV italiana andava in onda il Festival di Sanremo condotto da Pippo Baudo. Alle 21:18 la kermesse musicale fu brevemente interrotta e sugli schermi dell’Ariston apparvero le immagini in diretta del lancio dello Space Shuttle Columbia.
Io ero a bordo di quella navetta, intento a seguire gli ultimi momenti del conto alla rovescia, e solo al mio ritorno ho saputo, non senza una certa emozione, che oltre venti milioni di italiani avevano condiviso quel momento magico.
Era una missione davvero speciale, che trasportava nello spazio un esperimento rivoluzionario, frutto della tecnologia e dell’ingegno italiano. Il prof. Giuseppe Colombo, che l’aveva ideato, pensava di utilizzare la velocità della navetta e il campo magnetico terrestre per produrre energia elettrica nello spazio, proprio come avviene con una dinamo sulla terra. Come spesso accade, l’idea era semplice ma la realizzazione lo era assai meno. La vera sfida era nelle dimensioni: per produrre una potenza di qualche chilowatt c’era bisogno di un filo lungo 20 chilometri.
Per la NASA era la missione del Tethered Satellite System o TSS ma per tutti era il volo del “satellite al guinzaglio”. Il lunghissimo cavo era arrotolato su un enorme rocchetto, posizionato nella stiva del Columbia, con un’estremità collegata direttamente alla navetta mentre l’altra era connessa ad un piccolo satellite, progettato per raccogliere le cariche elettriche dello spazio. Man mano che si allontanava, il satellite si caricava positivamente attirando sempre più elettroni, che potevano raggiungere lo Space Shuttle grazie al filo conduttore. Lo svolgimento di questo gigantesco “aquilone spaziale” era abbastanza lento, per collaudare il sistema a bassa tensione prima di spingersi a valori sempre maggiori.
L’equipaggio era diviso in due turni, per lavorare senza interruzione nell’arco delle 24 ore. Il mio turno finiva dopo aver verificato il corretto funzionamento del satellite e il suo progressivo allontanarsi verso l’alto. Andai a dormire a malincuore, con l’immagine di quel sottile filo argentato e del satellite, ormai diventato un punto luminoso nel buio dello spazio.
Quando mi svegliai, ero impaziente di salire sul ponte di comando. Era arrivato il momento di spingere l’esperimento alla massima potenza e di utilizzare gli strumenti a bordo del satellite per raccogliere preziosi dati scientifici. Arrivai volando e fui colpito dalle facce dei colleghi che tradivano una cocente delusione: «il filo si è rotto e abbiamo perduto il satellite» furono le scarne parole di Franklin Diaz, il collega che operava l’esperimento nell’altro turno.
Sulle prime pensai ad uno scherzo ma, quando mi girai verso i finestrini posteriori, non c’era traccia del lunghissimo cavo e nemmeno del satellite; era rimasto solo un moncherino bruciacchiato, appena visibile nel punto dove usciva dal rocchetto.
Fu un colpo terribile. Il “mio satellite” era sparito e mi sentivo come un bambino a cui era sfuggito di mano il palloncino. Per fortuna, l’addestramento ebbe il sopravvento sulle emozioni e cominciammo a rifletter sulle cause dell’incidente. Un corto circuito aveva tagliato di netto il filo e il satellite era finito su un’orbita più alta, 70 km sopra le nostre teste.
Anche un fallimento può far progredire la ricerca, in particolare quella spaziale. Non si era arrivati alla fase finale ma i dati raccolti convalidavano la bontà della teoria. Avevamo tentato un esperimento al limite della fantascienza e quando eravamo in vista del traguardo, a circa un chilometro dalla distanza massima, un isolante difettoso ci aveva privati del successo.
A parte la delusione come scienziato, i sedici giorni passati nello spazio sono stati un’esperienza straordinaria. Mentre il Columbia lasciava l’orbita terrestre, ero felice di tornare a riabbracciare i miei cari ma, allo stesso tempo, mi sentivo triste perché dovevo rinunciare alla vista di quella magnifica oasi azzurra che chiamiamo Terra.